Quando supera il livello di guardia, il dolore è muto

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Tra le tracce proposte nella prima prova della Maturità 2025, quella dedicata al tema dei social media presenta una tesi che contiene alcune affermazioni che meritano un approfondimento.

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La traccia riprende un articolo del Corriere della Sera a firma di Anna Meldolesi e Chiara Lalli, basato a sua volta su una ricerca pubblicata su Science. Così si presentava il testo agli studenti:

««L’indignazione è il motore del mondo social. Ma serve a qualcosa? Una nuova ricerca, pubblicata su Science, dimostra che questa reazione emotiva accompagna spesso contenuti discutibili e che chi si scandalizza davanti a una presunta ingiustizia non perde tempo a cliccare sui link, per approfondire e verificare. Così, visto che la mente umana può esprimere giornalmente solo un tot di rabbioso disgusto, finiamo per sprecarlo su questioni irrilevanti per ignorare invece i temi che davvero meriterebbero la nostra irritazione».

Agli studenti si chiedeva quindi di riflettere sul fenomeno dell’indignazione online. Propongo qui un contributo alla discussione, consapevole della complessità del tema, segnalando l'esistenza di linee analitiche che vanno oltre i fenomeni visibili e affrontano il nodo antropologico del problema. Penso, ad esempio, agli studi di Jean Decety (The Neuroevolution of Empathy) e di Sherry Turkle (Alone Together).

La traccia presenta, anzitutto, una questione formale: l’articolo determinativo “il” davanti a “motore” sembra suggerire che l’indignazione sia l’unico motore, e non semplicemente uno dei motori, del mondo social. Se così fosse, non sarebbe difficile intervenire, basterebbe modificare un nostro atteggiamento. La questione, invece, è oggettivamente più profonda: l’ambiente social non è neutro, e il problema risiede meno nell’uso che se ne fa e più nelle logiche che lo governano. L’Ecosistema Mediale Integrato (EMI), di cui i social sono parte integrante, trae vantaggio dalla polarizzazione, dal conflitto e dalla rottura, perché proprio queste dinamiche generano attenzione, e l’attenzione è il denaro circolante nelle comunità di rete. Il conflitto e la rottura generano business.

In questo contesto, non isolatamente, l’indignazione è uno dei motori, insieme ad altre spinte forti, divisive e “contro”, come emozioni (rabbia, umiliazione), stati mentali (sospetto, opposizione), atteggiamenti (aggressività) e modalità comunicative (l’insulto).

Se nei contesti educativi il conflitto è trattato come un elemento da governare e risolvere per il bene comune, nelle comunità di rete esso diventa invece una strategia di successo, premiata in termini di visibilità e coinvolgimento.

Attribuire la responsabilità del buon uso dei social esclusivamente agli utenti, spesso giovanissimi, rischia di generare assuefazione, rassegnazione e un senso di impotenza in chi si trova coinvolto in dinamiche progettate per suscitare reazioni forti e massimizzare l’engagement. Se non si riconosce il meccanismo attentivo che coinvolge direttamente i pochi soggetti globali che progettano e governano questo ecosistema — un sistema che ha bisogno di opposizione per ottimizzarsi — si rischia di ignorare una parte decisiva del problema.

Intanto, stanno già emergendo generazioni con identità non cooperative e non samaritane, identità “contro”, cresciute in un ambiente che premia il conflitto e la rottura: e i frutti di questo processo si cominciano a vedere nelle relazioni quotidiane.


Marco Brusati
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