In silenzio si pensa meglio

Interessarci di quello che avviene perpendicolarmente sotto il balcone di casa finisce per distrarci da quello che sta entrando dentro casa passando dalla porta principale.

Dovremmo invece abituare la mente a cogliere i processi in atto attraverso la lettura di singoli fatti anche lontani tra loro. Eccone dunque uno, che ha acceso il dibattito in Gran Bretagna e che riguarda l'educazione sessuale nelle scuole: si tratta di un'attività didattica che alle nostre latitudini viene di media invocata come la panacea, la cui efficacia, come vedremo, dipende essenzialmente dai soggetti coinvolti e dalla loro visione antropologica.

Attraverso un articolo del The Times si è venuti a conoscenza di questa storia: il sito Bish è una guida online al sesso e alle relazioni, «è scritta da Justin Hancock, che insegna educazione sessuale» nelle scuole secondarie che, com'è possibile vedere sul sito International Student, sono frequentate da studenti tra gli 11 e i 16 anni. In uno dei post, ad una lettrice che si sentiva «sporca dopo essere stata costretta a fare sesso per soldi, Hancock ha risposto: “Può essere un lavoro davvero difficile, ma molte persone lo trovano gratificante, proprio come altri lavori". “Questo è particolarmente vero se che chi si prostituisce [the sex workers] ha principalmente buoni clienti, cosa che non penso tu abbia. Se volessi continuare, forse potresti ottenere clienti migliori?"». Il sito è dedicato a chi ha compiuto 14 anni. A sua difesa, l'interessato ha riferito che nelle scuole non insegna queste cose: lascio al lettore la valutazione sulla consistenza di questa affermazione, considerata la vita onlife delle ultime generazioni, per le quali non ha senso parlare di vita off-line separata da quella on-line

Per capire il contesto in cui è avvenuto questo fatto, va detto che in Gran Bretagna i corsi di educazione sessuale nelle secondarie sono stati resi obbligatori dal 2020 con l'acronimo RSE-Relationship and sex education. Da allora -sempre secondo The Times- è nata una vera e propria «industria di fornitori che producono risorse e vanno nelle scuole per insegnare l'educazione sessuale» senza che vengano richieste particolari «qualifiche per l'istruzione o lo sviluppo del bambino»; inoltre «non esiste un registro professionale o una regolamentazione dei loro curricula».

Il tema dei programmi RSE nelle scuole è molto caldo: lo scorso giovedì la Commissaria per l'Infanzia Rachel De Souza, in audizione al Common Education Committee [Commissione Parlamentare per l'Educazione] si è detta «shockata» nel sentire «orrendi esempi» di contenuti usati nelle scuole per l'educazione sessuale, sostenendo che i bambini hanno bisogno di materiale «adeguato all'età»; nella riunione, un membro della Commissione, la parlamentare Miriam Cates, aveva riferito che «gli elettori le avevano scritto esprimendole preoccupazioni per "una bambina di nove anni che era tormata a casa, tremante, bianca come un lenzuolo, perché le era stato insegnato lo stupro in dettaglio"» [Belfast Telegraph]. 

Il processo di sessualizzazione dell'infanzia è già entrato nella sua fase terminale attraverso la socialità mediata da uno smartphone e deve avere nel sistema educante un argine strutturato ed invalicabile: l'attenzione al tema deve essere massima, perché tale processo non trovi alcuno spazio, soprattutto nei percorsi educativi, da cui magari si pensa di escludere i genitori o al massimo di relegarli a ruolo di controllori a posteriori; genitori che invece devono poter offrire un consenso informato, che preveda anche l'esenzione dai programmi o la partecipazione a programmi alternativi ed esterni a quelli eventualmente proposti nelle scuole frequentate dai figli.


© Marco Brusati
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