Quando supera il livello di guardia, il dolore è muto

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In diverse famiglie con adolescenti, preadolescenti e anche bambini sembra che non ce la si passi molto bene. E non parlo di quella piccola conflittualità che da sempre caratterizza la convivenza di generazioni diverse sotto lo stesso tetto.

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Una conflittualità da confronto, che è normale quando si mantiene nell’orizzonte di un processo educativo orientato al bene dell’altro e non dimentica questa finalità ultima. Non ce la si passa molto bene quando, paradossalmente, tutto sembra filare liscio, quando la condivisione delle giuste aspirazioni di autonomia e diversità dei figli si trasforma nella validazione di ogni loro pensiero o comportamento socialmente imposto.

Insomma, non ce la si passa bene quando si accetta, per convinzione, incomprensione o sfinimento, che i figli possano vivere senza mettere mai in discussione quei modelli che social, radio o TV portano nella loro vita 24 ore al giorno 7 giorni su 7 e che, troppo spesso, propugnano la libertà assoluta da ogni regola, in particolare in tema di divertimento, soldi, affettività-sessualità. E così si va d’accordo, non ci si contrasta mai.
E chi mettesse in dubbio questi modelli parlando con altri adulti, si sentirebbe ripetere che non si può vietare tutto, che non si può demonizzare, che non siamo più nel Medioevo perché "il mondo oggi va così" e "noi non ci possiamo fare nulla"; che, al massimo, ci è concesso "vigilare" che i figli non si facciano troppo male.

A questo punto, osservando con coraggio la realtà e rimanendo lontani da ogni forma ideologica, ci accorgeremmo che ci sono ancora molti genitori che vorrebbero accompagnare i loro figli sulla strada della vita ed insegnare loro quei valori morali che essi stessi hanno sperimentato come buoni per vivere bene, come, per esempio, l'impegno, il sacrificio, l'attesa, l'accettazione della sconfitta, il rispetto dell'intimità, il rifiuto delle sostanze.

Tuttavia, questi stessi genitori si trovano contro chi, per fare solo un esempio, canta nelle orecchie dei loro figli che la marijuana non è mica un problema; oppure che una festa senza alcolici non è una festa; che la notte è fatta per essere vissuta; che gli affetti si vivono e basta, anche contro ogni evidenza ed esperienza; e, persino nelle comunità educanti, possono sentirsi dire che lo smartphone a 8 anni è normale e che dentro non si debba guardare per non violare la privacy di bambini che hanno ancora, giustamente, bisogno del nonno-vigile per attraversare la strada. E così decine di conduttori, artisti ed opinionisti mass-mediali in cerca di una remunerativa attenzione giocano sugli istinti per aumentare i follower.

Tutto questo rischia di ridurre i genitori, freudianamente, a genitori-zombie: vivi, ma educativamente non-vivi. Questa riduzione delle figure educanti primarie a semplici comparse — cui rimane solo la funzione di avallare decisioni altrui — è, peraltro, una precisa necessità strutturale del mercato mediale, che ha bisogno di consumatori sempre più piccoli, acritici e soli. I genitori-zombie piacciono molto, perché servono molto. E il loro modus operandi è raccontato come una forma di modernità imprescindibile.

Eppure, quando si arriva alle conversazioni private, si scoprono tanti, tantissimi genitori che continuano a sognare per i loro figli e le loro figlie una vita serena e armoniosa lontana da quella dei modelli dominanti, che incatenano, paradossalmente, in nome della libertà. Ma si sentono schiacciati, impotenti e temono di parlare per non essere zittiti. A volte si convincono che questa sia la naturale evoluzione dell'umanità.

Eppure può bastare un incontro personale per capire quanta sofferenza interiore stanno provando: una sofferenza feconda, che dice anzitutto a loro stessi che sono ancora vivi. Che ci sono. Che ci siamo.


Marco Brusati
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